Scorrere verso il basso
per altre storie
“L’indulgenza” di una mattinata di sole, in inverno
Una pungente mattinata invernale dal cielo sereno.
Il freddo si fa sentire, anche in Piazza del Duomo a Modena.
Il sole sale lentamente, superando, finalmente, i tetti delle case.
Perché non fermarsi e sedersi a godere del tepore così provvidenzialmente regalato da quei raggi dal caldo ed invitante colore? Ed usare lo smartphone può essere più facile se le mani non sono più intirizzite.
E poi, anche le antiche pietre lo suggeriscono.
Una macchia di colore
Per un’escursione fotografica invernale lungo il fiume Po avevo scelto il primo pomeriggio della prima giornata utile presentatasi.
L’inaspettata nebbia non mi dispiaceva; mi avrebbe aiutato a dare corpo all’idea di un ambiente dolcemente nostalgico che, in fondo, era quello che cercavo.
Un’ampia spiaggia, un sabbione, come si dice da queste parti, che conoscevo già era la mia meta preferita. Lunga, profonda, anche per la ridotta portata del fiume, si offriva alla mia camminata come un ottimo luogo di osservazione e come buona ambientazione per gli scatti che avevo immaginato. Ero alla ricerca di qualcosa che potesse raccontare del Po in quella zona ma, allo stesso tempo, di una situazione che fosse anche in grado di colpire visivamente e pure l’immaginario.
Quasi all’improvviso, vedo apparire in lontananza una macchia di un rosso acceso del tutto fuori luogo in quell’ambiente. La nebbia si era parzialmente diradata e quello strano oggetto si era materializzato ad un centinaio di metri da me.
Mantenendo un passo regolare, mi sono diretto verso di lui, curioso di scoprire cosa fosse. Un grosso bidone di metallo verniciato di rosso intenso!
Che stranezza essere finito proprio lì.
Era un po’ acciaccato per i colpi ricevuti, magari quando trascinato dalla corrente, ed ora era spiaggiato quasi fosse un animale morente. Il suo colore, però, era ancora brillante e questo lo rendeva vivo ai miei occhi.
Povero bidone, dopo una sicura e meritevole carriera come contenitore di carburante, o di chissà quale altro elemento liquido, sembrava proprio una fine ingloriosa la sua.
Chissà se perché mosso da una punta di compassione o dalla innaturale situazione, ho sollevato la macchina fotografica ed ho fatto uno scatto. Una cosa da poco ma forse gradita dal bidone che, così facendo, non si sarà sentito più totalmente inutile ed abbandonato.
Ma lasciami in pace!
Evidentemente, questo scultore che usa il ghiaccio e la neve pressata come materia prima, non considera ancora conclusa la sua opera. Qualche colpo qua, una passata là ma la creatura che, ormai, sembra aver acquisito un’anima, proprio non sopporta più che quella pala continui a torturarle il viso.
E basta, ora anche sul naso!
Un vecchio pallone da calcio
Quanti calci ha ricevuto e quante ne ha viste!
Ora è solo un vecchio pallone da calcio che, chissà per quale motivo, è finito nel Po.
Trascinato dalla corrente, per mesi ha navigato galleggiando sul pelo dell’acqua.
Un ragazzo maldestro, una piena improvvisa, il tentativo di sbarazzarsi di una palla bucata?
Non lo si saprà mai, ma ora il povero pallone, ormai pure parzialmente ricoperto di alghe, si è arenato su una piccola secca del fiume in cui è finito e, triste, attende che un nuovo rialzamento del livello dell’acqua gli faccia continuare il viaggio, la cui meta nessuno conosce.
Mille fili d’argento
A metà del pomeriggio di mezzo autunno, camminando lungo un sentiero dell’alta Val Tidone, ecco una visione inaspettata: migliaia di luccicanti fili addobbavano un campo di frumento, trasformandolo in un vero spettacolo per gli occhi.
Le piantine, ancor piccole e somiglianti ad erba comune, fungevano da sostegno ai fili tessuti da numerosissimi ragni dalle ridotte dimensioni.
Altrettanto numerosi, i fili penzolavano e si muovevano ad ogni bava di vento.
La luce ormai bassa del pomeriggio autunnale faceva la sua parte, contribuendo a creare un paesaggio surreale ed ipnotico.
Che meraviglia la Natura!
Tutto in un attimo
E’ successo davvero in un attimo.
Una bella escursione in montagna. Il cielo sereno ma, è vero, non limpido. Un bel sentiero da percorrere senza troppa fatica, invitante nel suo serpeggiare.
Dopo circa un’ora di cammino, improvvisamente sono stato avvolto da una nuvola bassa ed estesa che ha cancellato dalla vista il paesaggio, lasciando intravedere solo gli alberi più vicini.
Una condizione, a suo modo, magica, avvolgente.
E, poi, nulla più è cambiato fino al tramonto.
Duelli medievali, quasi veri (manca il morto)
Una cosa così non l’avevo mai vista!
In occasione di una rievocazione storica dedicata al Medioevo, il programma della manifestazione indicava, tra le altre cose, un torneo di combattimento fra cavalieri, senza cavallo.
Non era la prima volta per me assistere a rievocazioni storiche facenti riferimento a vari secoli e periodi di questi. Ho pensato che si trattasse della solita, interessante, simulazione di scontri fra armigeri. Una specie di rappresentazione teatrale fatta in campo aperto.
Nulla di più falso!
Ben diversa la realtà. I contendenti, indossanti vere repliche di armature medievali e dotati di altrettante copie di armi (non, però, affilate) di quel periodo, si scontravano davvero!
I colpi non lesinavano in forza, e qualunque parte del corpo poteva essere il bersaglio, dall’ testa ai piedi.
Ero molto vicino ai contendenti, appoggiato alla recinzione di legno grezzo che delineava il campo di gara dove i due cavalieri di turno si sfidavano, e questo mi ha dato modo di percepire quasi fisicamente l’intensità della lotta.
Abituati come siamo alle proposte filmiche, dove sia l’eroe che il cattivo sembrano spesso non patire la fatica dei combattimenti e nemmeno del dolore che questi provocano, capaci di proseguire quasi ad oltranza, qui le cose stavano radicalmente in modo diverso. Pochi minuti di duello bastavano per sfinire i contendenti, ed i colpi ricevuti, seppur protetti dalle armature, lasciavano il segno.
Che botte!
Ne sono rimasto particolarmente colpito, rendendomi conto di quali fossero le reali condizioni delle battaglie medievali. Ferro contro ferro, fendenti portati al massimo della forza possibile con l’intenzione di abbattere quanto prima l’avversario.
E la polvere sollevata dal costante movimento dei due contendenti non faceva altro che aumentare la drammaticità della scena.
Che dire: un tuffo nel passato molto, molto credibile!
La biblioteca di Casa Leopardi, a Recanati
Un pomeriggio piacevole, immerso in un’atmosfera ottocentesca di Storia e Cultura.
Una guida, un ragazzo, appassionata e brava nel proporre il racconto della vita vissuta da Giacomo in questa casa.
La biblioteca, il luogo assunto dal giovane Giacomo come il più importante per la ricchezza dei libri contenuti, dove oggi sono raccolte alcune cose e piccoli oggetti appartenuti al poeta, usati nello studio quotidiano.
Solo una leggerissima percezione di turbamento, per la sensazione di essere entrato impropriamente nei luoghi dell’intimità di un’altra persona.
L’antica e segreta cripta della chiesa di San Giovanni Domnarum
Per me la suggestione è quasi quanto quella delle chiese rupestri di Matera.
Pavia vanta una lunga ed articolata storia. Fra i periodi più importanti va annoverato quello che ha visto la città essere capitale del regno longobardo.
Tracce di quell’epoca ne sono rimaste a Pavia; non sono particolarmente numerose ma ciò che c’è è da considerarsi di sensibile valore.
La chiesa di San Giovanni in Domnarum è di fondazione molto antica; pare essere stata voluta dalla regina Gundiperga, moglie di re Rotari, alla metà del VII secolo come luogo per la propria sepoltura.
Come spesso accade, l’edificio subì diverse trasformazioni nel tempo, ma non tutte interessarono la sua cripta, che venne interrata per una serie di motivi in occasione proprio dell’ennesimo intervento sull’architettura, e per questo se ne perse quasi la memoria.
La scoperta della sua esistenza avvenne il 18 aprile 1914 grazie all'iniziativa di monsignor Faustino Gianani che, avvalendosi delle indicazioni di molte fonti storiche, fece scavare un cunicolo dal cortile retrostante. Grande fu la sorpresa nel ritrovare l’antichissima cripta!
Oggi è possibile visitare questo particolarissimo ambiente, arricchito dai resti di una serie di affreschi del XII secolo. La percezione di trovarsi in un spazio che trasuda storia da tutte le parti è grande.
Alla fine di una ripida e stretta scala, ci si trova immersi in un luogo che appare come una sorta di capsula del tempo, tale è forte la suggestione. I volti dipinti emergono dalla semioscurità, alcuni dei quali messi in risalto dall’illuminazione artificiale predisposta, e paiono scrutare con attenzione ogni visitatore che si presenta al loro cospetto.
Seppur con tutti i distinguo del caso, a me è sembrato anche di trovare forti similitudini d’impatto con ciò che qualche anno fa ho visto a Matera, entrando nelle sue numerose chiese rupestri. O perlomeno, l’atmosfera e la percezione generali mi sono parse rassomiglianti, e questo mi è piaciuto.
Un piccolo tesoro, quindi, capace di colpire la sensibilità ed accendere tutti i sensi.
Un viaggio nel passato che dura pochi minuti ma, vi assicuro, particolarmente intensi.
Che ritrovamenti, che emozioni!
Pochi anni fa a San Casciano dei Bagni, un piccolo paese che si affaccia sulla Val d’Orcia, in Toscana, si è verificato un vero miracolo: un ritrovamento archeologico di eccezionale importanza!
Dall’interno di un’antichissima vasca termale sono state estratte numerose opere bronzee, monete ed altri manufatti di epoca sia etrusca che romana. Un tale avvenimento è stato paragonato a quello famoso riguardante i “Bronzi di Race”.
Ad oggi, lo scavo non si è ancora concluso, e si pensa che tanto altro materiale di grande valore storico-artistico possa essere portato alla luce.
In paese erano impreparati ad un tale evento, ed è da poco che hanno iniziato a sentirsi al centro di qualcosa di enorme valore. Per ora, è visitabile solo un piccolo museo che vuole raccontare un po’ la storia, seppur ancora incompleta, di questo intervento archeologico che ha interessato il territorio comunale. Progetti per il futuro ce ne sono, ed a breve, pare, inizieranno il lavori per la realizzazione di un importante museo che accoglierà gli altrettanto importanti reperti.
Nell’agosto 2024 sono stato in visita presso il cantiere di scavo. Con altre persone, ho potuto vedere l’antica vasca termale da cui sono stati ripescati tutti quei meravigliosi manufatti. Il gruppo era guidato da Edoardo, un fotografo e videomaker romano che, richiamato dalla primissima fase della scoperta (che, dopo alcuni mesi ha evidenziato le potenzialità del sito di San Casciano), vi è giunto per documentare visivamente giornalmente il progredire dei lavori. Ne è rimasto stregato!
Da allora, non solo continua con al sua opera di registrazione delle attività durante le campagne di scavo che si sono susseguite negli anni, e che proseguiranno ancora per molto, ma ne è diventato una sorta di portavoce.
Oggi, volentieri, si propone come guida, conducendo all’intero della zona del cantiere chi si dimostra interessato a saperne di più.
Impossibile non percepire l’entusiasmo, il trasporto con cui Edoardo racconta di ciò che lì è accaduto ed accade, della fatica, della difficoltà di lavorare anche con un costante ed intenso getto d’acqua particolarmente calda che tende a riempire caparbiamente l’ampia buca dove devono scavare i ricercatori. Della delusione iniziale per l’assenza di risultati a cui è seguita un’euforia irrefrenabile per l’enorme tesoro scoperto, dei pianti per l’emozione generata dal vedere riemergere dall’acqua torbida opere dal valore artistico ed umano (perché legate ad un sentire religioso e ad una speranza taumaturgica, vista la destinazione d’uso del sito nell’antichità) capaci anche di toccare il sentimento.
Edoardo, presa una posizione centrale all’interno del cantiere, per quasi un’ora ha tenuto in tutti noi alto l’interesse, usando un linguaggio ed una mimica davvero coinvolgenti. Aiutandosi anche con una pubblicazione, dove erano presenti le foto che ha scattato ai reperti, ha illustrato con dovizia di particolari ciò che gli archeologi fanno, e con loro i numerosi studenti universitari che offrono la loro opera, insieme a manovalanza edile specializzata.
Tanto era l’entusiasmo di Edoardo che, ad un certo punto, nel raccontare si era pure commosso e, un pochino anche noi con lui.
Davvero un piacevole ed istruttivo pomeriggio che difficilmente dimenticherò.
Il torrente smeraldo
Durante un’escursione nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, che prevedeva in una prima parte del tracciato il costeggiare un torrente non particolarmente impetuoso, ho assistito ad una sorta di piccolo miracolo: l’acqua che scorreva era spiccatamente verde smeraldo.
La salita non era per nulla impegnativa, anzi, l’incedere a piedi sembrava più una passeggiata. Ben poca, quindi, la fatica. E allora, la libertà di guardarsi attorno era garantita, privo com’ero della dovuta attenzione al passo che va riservata quando si percorre un sentiero di alta montagna.
Dopo poco dall’inizio della camminata, la mulattiera entrava decisamente in un bosco. La vegetazione era rigogliosa, tipica delle ridotte altitudini, ed il verde assumeva mille e più sfumature, complice anche la luce del sole che qua e là faceva breccia o giocava con la semitrasparenza di alcuni tipi di foglie.
Proprio la combinazione fra l’intesso e diffuso verde, la presenza del forte irraggiamento solare e la capacità di riflessione dell’acqua bassa ha originato un inaspettato spettacolo: l’acqua del torrente appariva di un intensissimo color smeraldo.
Inevitabile rimanere fermi per qualche minuto a godere di una tale visione. Non si trattava di un solo breve tratto del piccolo torrente, ma dell’intera parte visibile dalla mia posizione.
La necessità di continuare il mio percorso ha interrotto l’ipnotico, piacevole momento e, di lì a poco, i miei passi mi hanno condotto su un tracciato distante dal magico torrente.
Il ricordo di quel momento è rimasto vivo in me nei giorni successivi, e mi è sembrato di riuscire a capire di più ciò che per secoli si raccontava dei boschi, parlandone come luoghi dove avvengono i sortilegi.
Evidentemente, era vero.
Lando Landi
Confesso: non sapevo dell’esistenza del museo dello sci e del museo della montagna di Stia, un paese nel Casentinese non certo di grandi dimensioni.
Ero in Toscana, nel Casentinese appunto, per godere delle mostre della prima edizione del Festival della Fotografia Italiana. In attesa dell’apertura dello spazio espositivo allestito a Stia (gli altri erano a Bibbiena ed a Poppi) ho voluto passeggiare per le vie del paese, stradine strette e con un’avvertibile pendenza.
Un’insegna quasi anonima, in un’anonima viuzza dove a fatica ci poteva passare un’auto di piccole dimensioni, annunciava l’ingresso al Museo dello Sci. L’ampia porta era aperta e permetteva di vedere l’interno. L’ambiente, lo si notava subito, era di quelli vecchi di secoli, e subito si intuiva la presenza di una quantità elevata di oggetti.
Dopo qualche istante di riflessione, eccomi fare il primo passo per superare la soglia d’ingresso.
La luce che illuminava ciò che appariva come un lungo corridoio non era poi molta. Abituati gli occhi, subito emergeva il cospicuo insieme di cose esposte, spesso appese a vecchi pannelli. Il soffitto a travi a vista ed il pavimento in un cotto che da molto tempo non si usa più contribuivano a rendere attraente il luogo.
Un istante dopo, ecco l’occhio accorgersi di un signore seduto ad una datata scrivania, chino ed intento a scrivere qualcosa. Della sua barba era impossibile non fare caso, tanto era lunga, bianca e non particolarmente curata.
Ho chiesto se si poteva visitare il museo, ottenendo un si nemmeno tanto pronunciato da quell’uomo, sempre chino su ciò che stava scrivendo, impedendomi di incrociare lo sguardo con il suo.
Con passo leggero per non disturbare, ho percorso le due corsie in cui era diviso lo spazio museale straripante di sci di ogni epoca, vecchie tute, scarponi, accessori di ogni tipo, che oggi risulterebbero d’uso arcaico; persino una cabina di una anziana funivia. Difficile orientare la lettura e la comprensione tanto era straripante il materiale esposto.
Passando al contiguo museo della montagna, l’allestimento di ciò che vi era raccolto permetteva una visione più facilitata. Qualche decina di minuti è stata sufficiente per una visita soddisfacente, complici anche le ridotte dimensioni delle poche stanze di cui il museo era costituito.
Avrei potuto, a quel punto, uscire senza fare il percorso a ritroso che mi avrebbe ricondotto al museo dello sci, ma non l’ho fatto.
Qualcosa mi attraeva. Con quell’uomo così schivo volevo parlare. Avevo la percezione che possedeva una storia importante da raccontare. E così, rientrato, mi sono avvicinato alla scrivania dove l’ho ritrovato, imperterrito, ancora impegnato nel suo scrivere.
Con una certa sorpresa, mi sono accorto che ciò che lo aveva “rapito” era il fare le parole crociate e, evidentemente, questo, a parer suo, richiedeva la massima attenzione.
Con garbo, ho fatto un paio di semplici domande, le cui risposte avrebbero potuto aiutarmi a capire di più ciò che i musei appena visitati proponevano. Ed è allora che si è rivelato un mondo inaspettato.
Come si chiama, ho chiesto quasi subito. “Lando Landi, la mia famiglia non ha dimostrato di avere una grande fantasia. O forse si”, questa è stata la risposta.
La successiva mezzora è stata come un fiume in piena. Il racconto della sua vita in un condensato entusiasmante.
Ottantatre anni, sciatore fra i primi in Italia, alpinista con molte importanti vette conquistate in giro per il mondo, spedizioni esplorative in vari continenti ed una passione per la montagna mai sopita.
Lando di tutto questo ne ha fatto quasi una religione. Usa una cadenza fortemente toscana nell’esprimersi e, passando in rassegna molte delle cose esposte nel museo, si sofferma su alcune paia di sci di cui racconta la straordinaria, incredibile storia; fa notare come erano fatti i primi scarponi da discesa e cosa volesse dire essere sciatori quasi settant’anni fa.
Gli occhi brillano quando ricorda il suo essere stato alpinista, e le avventure che ha vissuto.
Racconti affascinanti, uno di seguito all’altro, coinvolgenti.
Un affettuoso saluto conclude il mio dialogare con Lando Landi, una persona che il caso mi ha fatto conoscere, ed anche stavolta mi è stato regalato qualcosa che reputo prezioso: l’incontro, seppur inevitabilmente limitato, con la vita e le esperienze altrui.
E questo, se fatto con sincerità, è qualcosa che trabocca di infinita umanità.
La roccia spaccata
Percorrendo la bella ciclopedonale, in un punto non lontano dal paese di Valbondione, Alta Valle Seriana, ci si imbatte in un grosso masso che ha una semplice ma curiosa storia da raccontare.
Staccatosi dall’alto dell’incombente montagna tanto tempo fa, è precipitato a valle con chissà quale violenza. Di colpi nella sua caduta ne avrà presi davvero tanti, sbattendo qua e là, ma ha saputo resistere. Solo la fine della sua corsa, a quanto pare, lo ha segnato per sempre.
L’ultimo impatto, quello con il punto dove ora lo si può vedere, circondato da una rigogliosa vegetazione, deve aver vinto la sua ostinazione nel voler rimanere un unico pezzo.
Una grossa e profonda crepa si è così formata, separando il povero ciclopico masso in due parti fra loro quasi uguali.
Ma lui, il masso, non ha voluto scomporsi nel profondo, riuscendo lo stesso a mantenere, alla fine, molto vicine le due metà, così da apparire quasi integro e potersi vantare di essere ancora un’unica cosa, orgogliosamente.
O, forse, non è andata così.
Affresco “a sorpresa”
In un piccolo paese, di cui non dirò, dell’alta Toscana mi è capitato di entrare in un vecchio nobile palazzo dall’aspetto, per così dire, trasandato.
Al suo interno avevano allestito una mostra temporanea di espressioni visive, e l’ingresso era libero e non sorvegliato. Appena dentro, la percezione di semiabbandono era avvertibile. Calcinacci e sporco evidente erano già presenti nell’ambiente che per primo accoglie chi entra. Spostandomi da una stanza all’altra, la poca cura di questo edificio veniva costantemente confermata da pareti rovinate, infissi logori o cadenti, ragnatele e tracce di piccoli atti vandalici un po’ ovunque.
Il palazzo vantava diversi piani, ed uno scalone “nobile” che li collegava. Salendo, le condizioni generali non miglioravano, anzi. Seppur usate per manifestazioni pubbliche, le varie stanze si presentavano come luoghi a cui era stato sottratto il valore. In contrasto con tale situazione, erano stati montati pannelli, ed anche teche, per offrire una più fruibile visione del materiale esposto, ma con un carente impianto di illuminazione.
Non tutte le numerose stanze del palazzo era state adibite ad accogliere il materiale della mostra, ma molte di queste presentavano pareti e soffitti affrescati, segno di un importante passato.
Non nascondo il filo di tristezza percepito nel muovermi fra l’una e l’altra, in qualche caso nella penombra perché le imposte delle finestre di alcuni locali erano state parzialmente chiuse.
Entrando nell’ennesima stanza ben poco illuminata, una piccola sorpresa: leggiadre figure, dalle dimensioni contenute, cercavano da sole di rendere viva la parete dove erano state dipinte, singolarmente senza altro attorno e su sfondo monocromatico, una per ogni lato della stanza stessa.
I colori erano delicati, ed il movimento del corpo suggerito elegante. Una, in particolare, sembrava sforzarsi per riuscire a farsi notare, chiedendo alla poca luce di concentrarsi su di lei.
Uno sguardo durato qualche attimo per dare soddisfazione a quell’intento, un languido pensiero quasi fosse un saluto. Qualche passo per uscire e continuare la visita.
Chissà perché giorni dopo, spontaneamente nella mia memoria si è presentato il ricordo di quella visione, la visione di un piccolo affresco “a sorpresa”.