< >
Frecce laterali
per cambiare la foto.
Cliccare sopra la foto
per ingrandirla.
E ffettivamente, una chiesa con come tetto il cielo non è cosa comune.
Ovviamente, il progetto prevedeva anche la costruzione di tale copertura ma le vicissitudini della Storia e del Tempo hanno privato il monumento del suo tetto.
È una storia lunga quella dell’abbazia cistercense di San Galgano e della sua chiesa. Edificata nel XIII° secolo nell’attuale territorio comunale di Chiusdino, in Toscana, è diventata sempre più una realtà importante di quel territorio, e non solo, centro di fede ma anche economico e di potere, capace pure di condizionare la politica di una buona parte della regione.
Ma, si sa, nulla è eterno, e dopo secoli di ricchezza e prosperità, conquistate con il duro lavoro e con abili manovre diplomatiche, a San Galgano arrivarono la violenza ed il terrore. Aggressioni, ruberie, epidemie e pestilenze, parziali devastazioni, intervallate da periodi dove si tentò la rinascita piena, hanno segnato il destino del luogo. A peggiorare la situazione intervenne anche una pessima gestione dell’intero complesso e delle attività connesse, che durò quasi per tutto il XVI° secolo.
Celebre di quel periodo fu la vendita della copertura in piombo del tetto della chiesa, fatto che decretò l’inevitabile progressione della compromissione della conservazione e della stabilità dell’intero edificio.
Anni duri quelli che seguirono, caratterizzati da destinazioni d’uso dell’intero complesso differenti dall’originale, fra cui si nota addirittura quella come fonderia, e da semi abbandoni, per poi essere destinato a funzionare come azienda agricola.
Inevitabilmente, ciò determinerò nel corso dei secoli il pesante degrado di tutti gli edifici dell’abbazia. Infatti nel 1781 crollò ciò che rimaneva delle volte della chiesa, e nel 1786, colpito da un fulmine, crollò anche il campanile.
Dopo un manifesto interesse per lo studio di ciò che rimaneva dell’abbazia, espressosi verso la fine dell’800, iniziarono i lavori di restauro e recupero nel 1924, che portarono al consolidamento di ogni edificio del complesso. Altri interventi seguirono, ed oggi tutti possono godere di ciò che l’abbazia di San Galgano sa regalare.
Siamo abituati ad entrare nelle chiese che, nei vari stili di appartenenza, risultano normalmente complete delle loro parti costruttive, degli arredi e di ciò che il culto, o un uso diverso da questo, prevede. Ci colpiscono le opere d’arte contenute, la solennità che spesso caratterizza questi luoghi, il silenzio, la penombra. È strano, invece, ciò che si percepisce quando si è all’interno di San Galgano, quando si percorre la navata centrale della chiesa abbaziale, o il transetto. Sopra, il cielo, ai lati colonne, capitelli, archi che si presentano come incompiuti o reduci da una vissuta brutta avventura. Se, poi, si guarda ai piedi, si scopre una pavimentazione fatta di semplice minuta ghiaietta. Qua e là, si intuisce anche come la vegetazione tenti di mettere radici dove ciò non sarebbe previsto. Eppure, il fascino è tanto.
Ci si muove in un ambiente che è quasi surreale. È si una chiesa (lo è stata), ma di questa ha ormai solo le caratteristiche generali, la struttura identificativa. L’insieme è qualcosa che ti sorprende, proprio perché inatteso. Non si è di fronte ad un cumulo di macerie, caotico per sua natura.
Qui l’ordine esiste, esiste anche la precisione geometrica dei vari volumi, pieni o vuoti che siano. Si sente che è un luogo destinato alla sacralità, e questa percezione ci giunge per un’altra via, non quella convenzionale, spesso severa, ma quella alternativa delle emozioni legate al mistero ancestrale.
San Galgano è da vivere, non solo da visitare, seppur con una presenza inevitabilmente contenuta in una o due ore. Meglio andarci quando si sa che pochi saranno i turisti che si incontreranno, per evitare che la presenza ed il vociare di questi possa disturbare i nostri sensi.
Non muoversi rapidamente, non parlare, non fare rumori di sorta ma lasciarsi prendere, quasi rapire, da un fiume di sentimenti è ciò che qui si deve fare. Isolarsi per diventare ipersensibile, perdersi fra il reale e l’onirico, dimostrarsi al contempo razionale ed irrazionale.
Tutto ciò guardando all’insù, all’intero di una chiesa che come tetto ha il cielo di Toscana.