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  Il Muro di Berlino
 
 
  ieri divideva, oggi unisce
 
 
 
  Il 13 agosto del 1961 inizia la costruzione del 
  Muro di Berlino, diventando rapidamente il 
  simbolo della Guerra Fredda e delle divisioni 
  in genere.
  Il 9 novembre 1989 il suo abbattimento, vento 
  di speranza per un mondo più giusto.
  Gli anni successivi, però, hanno spesso 
  disatteso quella meravigliosa euforia di libertà 
  e di pace.
 
  
  
 
 
 
 
 
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  Una pianta della città al tempo del Muro. Se 
  ne trovano diverse nelle varie strutture o 
  spazi museali che del muro si occupano.
 
 
 
 
 
 
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  Non è certo compito mio raccontare la storia del Muro di Berlino.
  A Berlino ci sono andato per il Muro nel 2011, in agosto, per le manifestazioni che ricordavano i 
  cinquant'anni dalla sua costruzione.
  Il Muro è stato qualcosa di particolare non solo per "le Germanie" di ieri; ha influito sulla politica, 
  sull'economia e, in fondo, sulla vita di tutti i giorni dell'intero pianeta per quasi un trentennio.
  Una volta arrivato a Berlino iniziai a muovermi alla ricerca di ciò che di questa enorme recinzione 
  esisteva ancora. Le informazioni che avevo segnalavano che non molto era rimasto da quando, nel 
  novembre del 1989, ne era iniziata la demolizione in seguito alla sua "caduta". Ciò che era 
  sopravissuto nelle zone centrali della città era stato convertito in una specie di monumento, o era 
  diventato il destinatario di una serie di interventi pittorici, tendenzialmente legati a temi politici o 
  sociali. Altri pezzi, ormai decadenti, si confondevano con le nuove costruzioni o con le erbacce in 
  qualche angolo dimenticato.
  Comunque, i miei punti di riferimento principali erano chiari: la famosa Porta di Brandeburgo, e la 
  cosiddetta "East Side Gallery"; poi tutto il resto. La prima perché sfondo privilegiato di manifestazioni 
  e prove di forza fra le nazioni occupanti la città dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e di 
  proteste di dissenso a vario titolo da parte della popolazione berlinese. La seconda, in Muhlenstraße, 
  perché consiste nel tratto più lungo rimasto del muro in città, ed è anche quello più vistoso perché 
  interamente ricoperto da pitture, graffiti o similari, spesso di grande impatto e valore comunicativo.
  La monumentale e storica porta di Brandeburgo accoglie chiunque con quell'aria decisamente seria, 
  seppur i restauri del dopoguerra l'hanno ingentilita un po' donandole un colore meno cupo. Sarà, 
  forse, per tutte le volte che la si è vista in televisione nei documentari dedicati ai periodi storici del 
  dominio nazista della Germania e della Seconda Guerra Mondiale, ma non si riesce poi molto a 
  nutrire pensieri sereni al suo cospetto. Attorno poi, molte le memorie relative a tempi o fatti non felici. 
  Dalla vasta area monumentale dedicata all'olocausto ebraico voluto da Hitler e dai suoi gerarchi, alle 
  croci che ricordano le vittime degli anni sessanta, settanta e ottanta del Novecento, persone uccise 
  nel tentativo di superare il muro o decedute sempre a causa di questo. E poi, artisti di strada in 
  uniforme dell'esercito della DDR (la vecchia Repubblica Democratica Tedesca) che si presentano 
  come personaggi redivivi dell'epoca del muro, o come finte statue che, sempre in uniforme militare, 
  inaspettatamente si animano quando qualcuno si avvicina loro. Non sai se rimanerne divertito o se 
  farti prendere da po' di angoscia per ciò che deve essere stato a Berlino il periodo clou della Guerra 
  Fredda, visto come sono verosimili nella loro interpretazione e nella fedeltà dei costumi indossati 
  questi bravi artisti. Poi, un loro sorriso stempera tutto, e con piacere l'evocazione e la suggestione di 
  quegli anni duri si dissolvono.
  E il tour è continuato, raggiungendo il tratto di muro ormai famosissimo, quello della "East Side 
  Gallery", perché da tempo ricoperto da murales i cui messaggi alludono al periodo nel quale la 
  costruzione funzionava come efficace barriera, confine fra due mondi diversissimi, o a temi più vicini 
  ai nostri tempi. Autori più o meno noti, autorizzati o abusivi, nel tempo ne sono stati gli esecutori, 
  sfruttando la loro arte per essere eloquenti e chiari, spesso meravigliosamente diretti, nell'inviare i 
 
 
  loro messaggi contro chi in politica e nel sociale non opera a favore del bene comune.
  A modo suo, la vista del lungo tratto del Muro colpisce per la grande ricchezza di opere, realizzate 
  ciascuna in uno dei grossi riquadri di cemento con cui è stato costruito questo tratto della famosa 
  recinzione. Ancor prima delle forme, sono i colori ad attirare l’attenzione, spesso intensi, vibranti, saturi. 
  Poi, è la narrazione che prevale, e da quelle pitture emergono storie tragiche, ma anche di speranza.
  Oggi il Muro è certamente il simbolo di una separazione voluta dai poteri forti di un tempo ormai sempre 
  più lontano, ma è progressivamente diventato anche l’emblema della volontà di abbattere le divisioni, 
  offrendosi come luogo, metaforico e fisico, di incontro fra culture e di scambio di idee. 
  Inevitabilmente il Muro di Berlino è diventato anche un’attrazione turistica. Sono migliaia le persone che 
  ogni anno raggiungono la città mosse dalla voglia di visitare i luoghi teatro di avvenimenti spesso 
  tragici. Per accogliere ed offrire loro la possibilità di conoscere la storia di questa particolare e 
  drammatica linea di confine sono nati alcuni interessanti musei che raccolgono reperti e testimonianze 
  legate agli anni della sua esistenza. Inoltre, si è sviluppato un mercato relativo a gadget di vario tipo 
  che si rifanno anche al modo di vivere di quegli anni. Si possono acquistare oggetti, originali o 
  riproduzioni, in uso in quell’epoca, modellini delle famose Trabant, terribili e puzzolenti automobili dalla 
  quasi inesistente affidabilità, per non parlare dell’assenza del confort e della sicurezza di guida. Ci si 
  può portare a casa anche una divisa, completa di cappello di rappresentanza, dell’esercito della 
  Germania dell’Est, soldato semplice o graduato che sia.
  Tutto ciò può apparire in alcune situazioni come una sorta di parco dei divertimenti a tema per turisti 
  (vedi il celeberrimo Checkpoint Charlie), che rischia di far dimenticare almeno in parte la drammaticità 
  dei fatti, ma è probabilmente lo scotto da pagare per garantire visibilità e memoria a questa così 
  importante pagina di storia.
  E proprio la memoria è al centro delle azioni e delle iniziative della città che hanno anche portato a 
  evidenziare alcuni luoghi dove, lungo il muro e non solo, si sono verificati episodi particolarmente 
  importanti o cruenti. Pannelli esplicativi, murales permanenti, riproduzioni fotografiche, monumenti ed 
  opere artistiche varie che hanno dato modo ai loro autori di interpretare quei terribili anni. Anche 
  ritracciare il perimetro, segnalandolo sulla pavimentazione stradale, e non, con inserti di pietra o metallo 
  si è dimostrata un’attenzione dell’amministrazione comunale e dello Stato stesso. Tutto ciò ha dato 
  origine ad una serie di percorsi di visita e di approfondimento dedicati al tema del Muro di Berlino, 
  spesso molto commoventi, dove senza veli è possibile apprendere e, in un certo qual modo, rivivere gli 
  anni in cui il muro era una tragica realtà.
  Non immaginavo prima di partire alla volta di Berlino per realizzare un servizio sulla programmata serie 
  di cerimonie dedicata ai cinquant’anni dalla costruzione del Muro, a cui avrebbe partecipato anche 
  Angela Merkel, che questa storia mi coinvolgesse emotivamente così tanto. Ne sono rimasto colpito, e 
  nello scattare le mie foto spesso la commozione era tanta. Effettivamente, in quei giorni mi sono sentito 
  un poco berlinese anch’io. Inevitabilmente dell’Est.
  Fabrizio Pavesi
 
 
 
 
 
 
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  oggi
 
 
 
  nella sua parte più visitata
 
 
 
  Il Muro
 
 
 
 
 
 
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  Il Muro oggi è Storia, memoria, arte, e simbolo di un passato che ha visto nella repressione e nella violenza una delle sue caratteristiche 
  più marcate. Vuole anche essere luogo di aggregazione e di speranza.
 
 
 
 
 
 
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  La parte più importante del Muro 
  rimasta in piedi si trova nella zona 
  conosciuta come East Side Gallery. E’ 
  lunga circa 1,3 chilometri, diventata in 
  breve tempo un’enorme superficie che 
  accoglie semplici o pregevoli opere 
  pittoriche, dai graffiti a immagini più 
  complesse, che illustrano la storia del 
  muro o si rifanno ad episodi politici o di 
  valore sociale.
 
 
 
 
 
 
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  Uno dei due lati di una parte di Muro di Mühlenstrasse è stato in un suo 
  tratto lasciato senza una protezione nei confronti degli agenti atmosferici 
  e delle aggressioni vandaliche.
  Si presenta impressionante nella sua severità; una cruda visione 
  testimoniante il ruolo avuto dal Muro dalla sua costruzione.
 
 
 
 
 
 
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  Pezzi del Muro rimasti ancora in piedi (2011), 
  riportanti affermazioni e testimonianze 
  risalenti spesso all’epoca in cui era ancora 
  integro e funzionante nel suo ruolo di confine 
  e barriera invalicabile.
 
 
 
 
 
 
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  Una torretta superstite delle 
  numerose esistenti lungo l’intero 
  tracciato del Muro. Permettevano 
  un’efficace sorveglianza, e di 
  sparare facilmente a chiunque 
  tentasse di superare la barriera di 
  confine.
 
 
 
 
 
 
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  La città non vuole cancellare ciò che è stato il suo recente passato legato all’esistenza del Muro. Nei 
  quartieri e nei punti considerati importanti lungo il tracciato dell’odiata barriera, sono presenti 
  pannelli esplicativi che raccontano com’erano quegli anni, segnali di vario tipo che ricordano fatti 
  cruenti avvenuti in quel luogo o tracce mantenute vive perché legate alla divisione della città.
  I musei hanno un ruolo importante come testimoni, e nel preservare la memoria. Conservano oggetti, 
  fotografie, filmati, storie, e tutto ciò viene proposto alla cittadinanza ed al visitatore non berlinese in 
  una forma che possa permettere la comprensione di quale tragedia si sia trattato, e di come il Muro 
  abbia influito negativamente a livello planetario per quasi trent’anni.
 
 
 
 
 
 
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  In alcune zone della città, parte dei tratti demoliti nel tempo del 
  Muro sono stati rimpiazzati da strutture che ne simboleggiano 
  l’esistenza nel passato.
 
 
 
 
 
 
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  Semplici targhe ricordano il punto 
  dove sono state uccise le persone 
  che hanno cercato di superare il 
  Muro.
 
 
 
 
 
 
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  In prossimità della Porta di Brandeburgo si possono vedere diverse croci appese: ricordano molte delle oltre duecento vittime cadute in relazione all’esistenza del Muro di Berlino, sia nel tentativo di superarlo 
  che per altre cause.
 
 
 
 
 
 
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  Un’interpretata ricostruzione del Muro 
  che presenta una serie di caselle 
  contenenti le fotografie delle persone 
  cadute nel tentativo di superarlo per 
  fuggire ad Ovest, o per altri motivi 
  riconducibili sempre al muro.
 
 
 
 
 
 
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  Una delle tante ‘‘curiosità’’ presenti in uno dei 
  musei dedicati alla storia del Muro di Berlino: 
  l’ultraleggero autocostruito con cui un 
  cittadino della parte Est della città riuscì a 
  fuggire nella zona Ovest.
 
 
 
 
 
 
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  Il fasoso Checkpoint Charlie sulla 
  Friedrichstraße, un importante posto di 
  blocco situato in città tra il settore sovietico e 
  quello statunitense. Ora è stato trasformato 
  una vera e propria attrazione turistica, forse 
  anche un po’ squallida.
 
 
 
 
 
 
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  Nell’agosto 2011, ed in particolare il 13, Berlino ha voluto ricordare la nascita del Muro con una serie di manifestazioni.
  Forte la commozione.
 
 
 
 
 
 
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  Molti i visitatori ed i turisti che giungono a Berlino anche per vedere ciò che resta del Muro. In alcuni casi si tratta di persone 
  attente e preparate; per altri è solo una risposta superficiale ad una semplice curiosità. In mezzo il mercato dei gadget.
 
 
 
 
 
 
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  Artisti di strada 
  propongono 
  un’interpretazione, seppur 
  parziale, del clima 
  dell’epoca del Muro di 
  Berlino, offrendosi con 
  costumi che replicano le 
  divise dell’esercito e degli 
  agenti della STASI della 
  DDR di allora.
 
 
 
 
 
 
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  Pietra e metallo per indicare il tracciato del Muro ormai abbattuto.
 
 
 
 
 
 
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  La fine della Seconda Guerra Mondiale portò in eredità stravolgimenti di dimensioni 
  incalcolabili per l’intero continente europeo, sia a livello sociale, sia a livello politico-
  economico. Uno dei Paesi maggiormente colpiti fu inevitabilmente la Germania, 
  responsabile dello scoppio del conflitto. Il territorio tedesco venne suddiviso in quattro aree 
  di influenza, rispettivamente sotto il controllo dei quattro principali vincitori: Usa, Urss, Gran 
  Bretagna e Francia. Sin dai giorni immediatamente successivi la fine delle operazioni 
  belliche e l’instaurazione dei controlli militari alleati, fu chiaro a tutti come la Germania 
  sarebbe diventata il fulcro dell’antagonismo tra Occidente e Urss.
  Il palcoscenico sul quale si concentrò sia mediaticamente che politicamente l’attenzione dei 
  due schieramenti opposti fu la città di Berlino, la quale divenne rapidamente il simbolo della 
  Guerra Fredda. La capitale, infatti, che si trovava all’interno della zona di occupazione 
  sovietica, venne a sua volta suddivisa e sottoposta al controllo delle quattro potenze 
  mondiali.
  All’inizio del 1947 Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia decisero di collaborare strettamente in 
  campo politico-economico, attuando una riforma monetaria che prevedeva la liberalizzazione 
  degli scambi nelle loro tre aree di competenze e l’ingresso di queste ultime nel piano 
  Marshall. Tale decisione, presa dalle democrazie occidentali con il chiaro intento di far 
  rientrare la Germania dell’Ovest sotto la sfera d’influenza del blocco occidentale, scatenò la 
  rabbiosa reazione di Stalin. Egli decise di imporre un blocco aereo sulla capitale tedesca: fu 
  in quest’occasione che, per la prima volta, Berlino divenne involontariamente assoluta 
  protagonista di quella guerra del terrore che segnò irrimediabilmente la vita dei decenni 
  successivi.
  Attraverso il blocco di Berlino e la chiusura degli accessi alla città, l’Urss si pose l’obiettivo di 
  mettere in difficoltà il flusso di rifornimenti diretti alle zone della città non sotto il suo 
 
 
  controllo, nella speranza di indurre gli occidentali ad abbandonare le proprie zone di 
  occupazione. Questo deve essere considerato a ragion veduta, il momento di 
  maggior tensione dell’intera Guerra Fredda, durante il quale si riuscì a evitare un 
  terzo conflitto mondiale solo grazie ad abili manovre diplomatiche.
  La crisi venne infine superata senza veri e propri scontri militari, in particolare grazie 
  al colossale ponte aereo messo in atto dagli americani, che permise  loro di rifornire 
  costantemente la città sino a che, nel maggio del 1949, i sovietici decisero di togliere 
  il blocco, che si era dimostrato quasi del tutto inefficace. 
  Nello stesso mese le tre potenze occidentali decisero di unificare le rispettive zone di 
  occupazione, dando vita così a uno stato autonomo: la Repubblica Federale 
  Tedesca. La scontata risposta sovietica non si fece attendere: la parte orientale del 
  paese, sotto il controllo dell’Urss, diede vita alla Repubblica Democratica Tedesca.
  Dopo un certo periodo di apparente tranquillità, verso la fine degli anni Cinquanta i 
  rapporti tra americani e sovietici tornarono a incrinarsi. In Europa, ancora una volta, 
  il punto caldo divenne Berlino. Nel novembre del 1958 Kruscev chiese 
  improvvisamente l’evacuazione delle truppe degli alleati occidentali presenti in città, 
  entro la fine dell’estate seguente. In caso contrario, il leader sovietico minacciò la 
  firma separata da parte dell’Unione Sovietica di una pace con la Repubblica 
  Democratica Tedesca. Quali sarebbero state a questo punto le alternative per Stati 
  Uniti, Gran Bretagna e Francia? Questa azione unilaterale sovietica sembrava 
  comportare per le potenze occidentali o il riconoscimento ufficiale della Repubblica 
  Democratica Tedesca quale stato autonomo e negoziare un accordo di accesso in 
  città con essa o accettare che Berlino venisse assorbita definitivamente dalla 
  Germania dell’Est. 
 
 
 
 
 
 
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  Nessuna delle due opzioni risultava però essere allettante: la prima soluzione avrebbe 
  scatenato uno scontro diplomatico con la Repubblica Federale Tedesca, la quale sarebbe 
  rimasta formalmente sotto il controllo alleato; l’altra avrebbe determinato un duro colpo per il 
  prestigio delle tre potenze occidentali, le quali avrebbe abbandonato la città simbolo del 
  binomio mondiale. 
  La mossa di Kruscev rispondeva a un preciso piano strategico volto a bloccare il flusso di 
  giovani che, attraverso l’ultimo accesso rimasto aperto nella Cortina di Ferro in Berlino 
  Ovest, passavano dalla Germania Est alla Germania Ovest spinti dal desiderio di trovare 
  nuove opportunità nell’Occidente più ricco e sviluppato. Oltre al fatto che questo flusso 
  comportasse per la DDR di ritrovarsi privata dei suoi cittadini meglio istruiti, la costante 
  migrazione da Est a Ovest offriva una propaganda gratuita al governo tedesco occidentale e 
  al mondo americano.
  Ironia della sorte, il risultato finale della lunga crisi di Berlino, iniziata da Kruscev nel ’58, per 
  i sovietici si concluse con un fallimento totale proprio sul piano propagandistico. Gli Stati 
  Uniti e le potenze europee, infatti, si limitarono a ignorare l’ultimatum del leader russo, il 
  quale non riuscì a ottenere nulla nemmeno nel corso dell’incontro con il presidente 
  americano Eisenhower, tenutosi nel settembre del 1959 a Camp David. 
  Il livello di tensione riprese a salire vertiginosamente l’anno successivo a Parigi quando, in 
  occasione di un summit a quattro dedicato a risolvere il problema spinoso di Berlino, 
  Kruscev abbandonò burrascosamente il tavolo delle trattative. 
  Fu però il nuovo presidente americano, J. F. Kennedy, a trovarsi a gestire il culmine della 
  crisi. Nella sola prima metà del 1961 più di centomila tedeschi dell’Est erano emigrati 
  attraverso Berlino nell’Ovest del Paese. Da parte sovietica appariva sempre più chiara la 
  necessità di trovare una soluzione alla situazione creatasi. Kruscev decise di fissare la fine 
 
 
  del 1961 come scadenza del periodo destinato alla ricerca di tale soluzione. La 
  risposta di Kennedy fu quella di riaffermare a gran voce l’impegno massiccio 
  occidentale a Berlino Ovest e, per dimostrarlo, chiese al Congresso di aumentare gli 
  investimenti nel campo della difesa. 
  Con il montare delle tensioni, sovietici e tedeschi dell’Est optarono per l’unica 
  soluzione che appariva loro plausibile e che non avrebbero portato a uno scontro 
  militare aperto: il 13 agosto 1961 le forze di polizia della Germania dell’Est iniziarono 
  a posizionare una fitta rete di filo spinato lungo tutto il confine tra Berlino Est e 
  Berlino Ovest, al fine di arginare pesantemente la fuga dalla Repubblica 
  Democratica Tedesca. Ben presto questa barriera di filo spinato si trasformò in un 
  vero e proprio muro in cemento, intervallato regolarmente da un esiguo numero di 
  posti di controllo costantemente sorvegliati. Le potenze occidentali, compresi gli Stati 
  Uniti, protestarono per quanto fatto dal governo comunista tedesco, appoggiato dai 
  sovietici, ma non cercarono mai di abbattere il muro, nella consapevolezza che ciò 
  avrebbe significato quasi certamente lo scoppio di un conflitto armato.
  Nonostante il Muro di Berlino significò per numerosi cittadini tedeschi la condanna a 
  una vita in condizioni critiche e sotto un autoritario controllo politico, 
  progressivamente la questione di Berlino occupò una posizione sempre meno 
  cruciale sullo scacchiere della Guerra Fredda. In un certo senso, il Muro 
  simboleggiava il sentimento di rassegnazione e accettazione da entrambe le parti 
  dello status quo in Europa. 
  Anche se il Muro incarnò la soluzione contro la minaccia di un possibile scontro 
  armato tra i due ‘‘mondi’’, tuttavia esso comportò  una catastrofe ideale e culturale 
  destinata a segnare in modo indelebile la società del secondo Novecento. 
 
 
 
 
 
 
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  Divenuto, come detto, immagine della Guerra Fredda, il Muro divenne anche il segno più 
  lampante della dittatura sovietica in Europa.
  Berlino tornò a essere centro del mondo alla fine degli anni Ottanta quando, sull’onda delle 
  riforme di Gorbaciov, nuovo leader riformista in Unione Sovietica, si mise in moto un 
  processo di emancipazione per l’Europa dell’Est. Il primo passo venne compiuto dalla 
  Polonia, immediatamente seguita dall’Ungheria. L’instaurazione di un nuovo governo non 
  comunista in Ungheria e l’accettazione di quest’ultima di un prestito da parte della Germania 
  dell’Ovest, comportò la scelta ungherese di aprire le proprie frontiere. Immediatamente ebbe 
  inizio un imponente flusso migratorio che, attraverso il paese magiaro, permetteva ai 
  tedeschi dell’Est di passare nella Repubblica Federale Tedesca. A fine settembre il governo 
  tedesco dell’Est si trovava soffocato dalle pressioni dei manifestanti che chiedevano riforme 
  analoghe a quelle attuate in Polonia e Ungheria. 
  Il 9 novembre, dopo che vennero rese note le bozze delle riforme richieste, gli abitanti di 
  Berlino Est cominciarono ad ammassarsi ai piedi del Muro, chiedendo che venisse loro 
  consentito di attraversare la barriera. Le scoraggiate e impaurite guardie della RDT (DDR) 
  decisero di aprire i varchi e i cittadini berlinesi di entrambi i poli, armati di picconi e tanta 
  voglia di libertà, abbatterono il Muro, simbolo per quasi trent’anni di soprusi, violenze e 
  oppressioni.
  Nel 1990 Gorbaciov accettò che la Repubblica Federale Tedesca assorbisse la Repubblica 
  Democratica Tedesca e rimanesse interamente all’interno della NATO. 
  Secondo le stime più attendibili circa, 100.000 abitanti della DDR, tra il 1961 e il 1989, 
  tentarono di oltrepassare la Cortina di Ferro che divideva le due Germanie, anche attraverso 
  il Muro di Berlino. Secondo i calcoli degli studiosi che si sono impegnati nel ricostruire le 
  storie di quanti hanno messo in gioco la propria vita alla ricerca della libertà, furono circa 600 
 
 
  le persone uccise dalle sentinelle mentre cercavano la fuga. 140 di esse furono 
  vittime della barriera berlinese: 100 cittadini della DDR vennero uccisi mentre 
  cercavano di migrare nella liberale RFT (alcuni morirono anche annegati nei corsi 
  d’acqua che costeggiavano il Muro, o a causa di incidenti mortali o suicidatisi dopo 
  essere stati scoperti per evitare la cattura), 30 persone provenienti dall’Est vennero 
  uccise a fucilate o morirono in incidenti, e 8 soldati delle truppe di frontiera della RDT 
  caddero in servizio per mano di disertori, di camerati, di fuggiaschi, di aiutanti di 
  fuggiaschi o i poliziotti di Berlino ovest. 
  Leggi e disposizioni regolavano in modo glaciale l’uso delle armi da fuoco sul confine 
  berlinese. Un ordine del Ministero della Difesa della RDT dell’ottobre 1961, infatti, 
  autorizzava l’uso delle armi da fuoco “per arrestare persone che non obbediscono 
  alle intimazioni delle sentinelle di frontiera al grido “Fermo – Rimanga fermo – 
  Sentinella di frontiera!” o dopo lo sparo di un colpo di avvertimento in aria, cercano in 
  modo evidente di superare il confine di stato della RDT, ” e quando non ci sono altre 
  possibilità per il fermo”. 
  Dal punto di vista giuridico, un ordine perentorio di sparare con l’obiettivo di uccidere 
  non esisteva, ma elogi e premi per chi sparava e ammazzava, pressioni ideologiche 
  sui soldati di leva e sugli altri soldati, leggi penali che definivano il tentativo di fuga 
  come un crimine entro determinate condizioni, facevano sì che l’uccisione di chi 
  veniva colto nel tentativo di fuggire apparisse alla stregua di un dovere. Solo il 3 
  aprile 1989, quindi pochi mesi prima della demolizione del Muro a opera dei berlinesi, 
  le truppe di frontiera della DDR ricevettero l’ordine dal Segretario Generale Erich 
  Honecker di non impiegare più “l’arma da fuoco per impedire lo sfondamento del 
  confine”. 
  Federico Pavesi (storico)